di Luigi Motta
I Saraceni, presenze reali e temutissime nel X secolo, col tempo diventarono i demoniaci Mori, che per la leggenda, avrebbero trasportato da
lontano, magicamente, Pera Morera, presso la quale usavano radunarsi.
Fino a non molti decenni or sono, nelle sere invernali, in tutte le aree rurali del Piemonte le famiglie si riunivano nella stalla, alla luce fioca di una candela, per concludere gli ultimi lavori della giornata sfruttando il calore garantito dalla presenza degli animali domestici. Questo momento di intimità offriva l’occasione per raccontare e tramandare, di generazione in generazione, tutto il patrimonio di conoscenze e di credenze che costituiva la ricchezza immateriale della comunità.
Nel territorio della Collina morenica i massi erratici, proprio per la loro forma, la loro mole e la loro posizione spesso curiosa e dominante rispetto al paesaggio circostante, ma soprattutto per il mistero che circondava le loro origini, hanno da sempre colpito l’immaginazione dell’uomo, tanto da essere al centro di un gran numero di leggende e racconti di origine antichissima. Già nei sermoni del fondatore della diocesi torinese, San Massimo (metà IV – inizi V secolo), a testimonianza del persistere degli antichi culti di origine pagana che vi erano collegati, gli erratici erano definiti “altari del diavolo”.
La continuità di culto ha comportato sovente la cristianizzazione di luoghi di devozione già pagani, prevalentemente incidendovi il segno sacro per eccellenza, la croce. Questa pratica, nota dai menhir in Bretagna alle rocce di Traversella in Piemonte, è stata ipotizzata nell’anfiteatro morenico per il masso di S. Antonio di Ranverso.
Nella maggior parte dei casi, però, l’apposizione di simboli religiosi va interpretata come una presa di possesso di territori marginali, percepiti come campo d’azione prediletto degli spiriti maligni: è il caso di Rocca Pinta o di Roc S. Giors. Quest’ultimo, situato presso Rivoli, fu secondo una leggenda, dimora di un eremita ed è dedicato a S. Giorgio da Lydda, che sconfisse il drago abitatore dei luoghi solitari.
Se anticamente un certo numero di massi presentava pitture religiose (Rocca Pinta), piloni votivi (Masso di S. Antonio di Ranverso; masso presso Case La Cucurda ad Avigliana), cappelle (Roc di Pianezza; Rocca Pinta), purtroppo in parte scomparse, l’uso di erigere chiesette, statue religiose (Pera Morera) o anche solamente di dare ad un masso il nome di un santo (S. Pancrazio, S. Luigi, S. Giorgio) è oggi ancora vivo.
Benché si sappia ancora poco su cosa effettivamente abbiano rappresentato gli erratici per gli abitanti dell’anfiteatro vissuti prima dell’Ottocento, si può pensare, per analogia con altre regioni europee, che anche i massi dell’anfiteatro siano stati concepiti come abitazioni di entità più o meno amiche, custodi dei luoghi.
Nel Cuneese e nel Canavese, gruppi di massi sono identificati con i soldati inviati dall’imperatore Diocleziano all’inseguimento dei santi della Legione Tebea scampati al massacro ordinato dall’imperatore Massimiano nel 287. Rimasti pietrificati, rivelano la loro presenza a chi accosti un orecchio alla roccia, producendo strani rumori. Così, accostando l’orecchio ad un masso in località Ciapòt presso il fiume Sangone, si udrebbe il rumore del mare. Proprio questo rumore ha fatto nascere una leggenda dai contorni non definiti che vorrebbe esservi un fiume o delle persone nascoste nella pietra.
Nell’area dell’anfiteatro quattro massi sono legati alle masche: il Roc d’le Masche a Pianezza, la Pera d’le Masche sul Monte Cuneo, e le due Pera Sgaroira, una presso Rivoli, l’altra presso Avigliana.
Compaiono nella toponomastica delle colline moreniche anche due Bal di Maschi, posti uno nuovamente sul Monte Cuneo, l’altro sullo sperone roccioso di Torre del Colle.
Masca è un termine non così folkloristico come si potrebbe credere: nell’Editto di Rotari, tra le prime fonti giuridiche del Medioevo italiano, sono citate le striae quod est mascae. Si tratta di donne che operano incantesimi, sciolgono o indirizzano fatture, prevedono il futuro, sono capaci di curare con medicamenti strani mali altrimenti inguaribili. In altre parole sono esattamente streghe.
Il termine è stato anche usato in senso lato per denominare presenze più soprannaturali, ma tutto sommato meno pericolose, talora sentite con una punta di ironia: una sorta di spiritelli dispettosi, maligni, che si divertono a spaventare il prossimo, per il puro gusto di farlo.
La semplice osservazione che alcuni animali ritenuti nocivi dalla credenza popolare (volpi, serpenti, tassi e lupi) siano stanziali presso gli erratici, può essere stata alla base della credenza che i demoni dei massi possono incarnarsi nei selvatici per poi spostarsi, la notte, da un luogo all’altro in preda alla loro eterna pena per poi tornare, all’apparire del nuovo giorno, alla propria sede.
Se, come è stato correttamente osservato (M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino 1954) «non saprei dire se gli uomini hanno mai adorato i sassi in quanto sassi. (…) Una roccia, un ciottolo, sono oggetto di rispettosa devozione perché rappresentano o imitano qualche cosa (…) Li hanno adorati o se ne sono serviti come strumenti di azione spirituale, come centri di energia destinati alla difesa propria o a quella dei loro morti. (…) La loro funzione era magica più che religiosa», i massi non furono mai, probabilmente, direttamente oggetto di culto. Il loro ruolo nella religiosità popolare dei secoli passati fu comunque di rilievo specialmente quando si trovavano inseriti in contesti scenografici, come è evidente nelle più famose aree di incisioni rupestri liguro-piemontesi (Monte Bego, Traversella).
Fra le credenze pagane legate alla rocce, la più documentata e diffusa in molte parti del mondo è quella delle “pietre fecondatrici” e cioè che i massi cui era attribuita un’anima avessero un potere fecondatore. Inoltre, in alcuni megaliti e massi, l’antenato o il morto “fissato” nel sasso diventa da presenza rancorosa verso i viventi, strumento di difesa e di accrescimento della vita. Così i Samoiedi pregano e offrono oro alla pyl-paja (la donna-sasso), e gli sposi novelli camminano sopra un sasso perché la loro unione sia feconda. Deboli vestigia di queste usanze, eredi di un culto antico, sopravvivono nella glisse (= scivolata) francese, in cui per avere figli le donne scivolano lungo una pietra consacrata, oppure nella friction, in cui si siedono sopra un monolito (Decines, Provenza), dormono sopra un masso (Finisterre), vi strofinano il ventre (Pont-Aven) o lo urtano con le natiche (Cappella del Sasso, Oropa). In Finisterre, nel Medioevo furono emesse dal potere religioso e da quello civile leggi contro il “culto” delle pietre che si manifestava anche con l’accoppiamento di coniugi durante il plenilunio e altre pratiche sessuali presso i massi. A Carnac fu piantata una croce sulla roccia per impedire un rito tipo friction, e verosimilmente hanno lo stesso scopo le croci piantate in antichità su diversi erratici valsusini oggetto di culto, come Pietra Alta e Pera Morera, e la colonnina gneissica con simboli cristiani sul masso di S. Antonio di Ranverso. Una credenza che potrebbe essere definita “complementare” a queste è quella delle “Pietre forate”, attraverso cui devono essere fatti passare i bambini per assicurare loro buona salute (secondo M. Eliade, diffusa in Francia, Grecia, Inghilterra). Non si può escludere che tale usanza fosse praticata anche presso alcuni gruppi di erratici valsusini, in cui lo spazio fra massi accostati naturalmente a formare una galleria è stato artificialmente ripulito da detriti e terriccio (Masso della Veneria, Pera Morera). Ancora nell’Ottocento le genti contadine valsusine ritenevano che toccando gli erratici ci si propiziasse la fertilità dei campi e delle donne. Deriva dalla reminiscenza di culti pagani anche l’associazione fra massi e diavolo di molte leggende piemontesi. La più conosciuta è quella relativa alla Pera Cagna, grosso erratico del Piano di Trione (Val Grande di Lanzo). «Pare che al diavolo fosse stato assegnato il compito di distruggere una città e i suoi perversi abitanti, e si accingesse all’opera trasportando sulle spalle un enorme macigno. Nel suo itinerario passò sopra la Val Grande, ma per le preghiere di un santo eremita al diavolo mancarono le forze e il masso gli sfuggì precipitando nel posto dov’è tuttora. Tentò con tutte le forze disponibili di risollevarlo, trasformandosi via via in leone, aquila, avvoltoio, lasciando ogni volta impressi i segni dei suoi sforzi». I segni menzionati dalla leggenda sono le “sacocie”, i tafoni e le vaschette di corrosione precedentemente citati. Probabilmente una leggenda analoga è all’origine del nome della Pera d’le Masche, ricca di pseudokarren foggiati a graffi. In Valle di Susa una leggenda sicuramente senza substrato pagano precedente, racconta: «Venuto a morte, Erode non fu precipitato nell’inferno, ma condannato a girare il mondo in una carrozza di ferro arroventata che col vento fiammeggia e manda scintille. Per liberarsi di quel tormento Erode cerca di mandarla a fracassarsi contro i macigni che incontra nel suo cammino. Uno di questi si trova in Valle di Susa, tra Vayes e Sant’Antonino: di notte si può vedere la carrozza d’Erode che tra fumo e faville gira intorno a questo masso, poi, siccome non riesce a rovinarla, Erode scompare».
Un utilizzo comprovato dei massi è quello di sito-deposito di oggetti. Il masso può essere adibito a magazzino di attrezzi agricoli quando ha lati strapiombanti, che formano anfratti sempre asciutti oppure fungere da punto di riferimento per il seppellimento di oggetti di valore in momenti di pericolo, particolarmente utile in aree uniformi e boscose. Per entrambi questi usi, le aree più importanti non sono quelle dell’anfiteatro ma quelle più interne alla valle, in particolare San Valeriano e La Maddalena di Chiomonte. Ancora una volta, l’uso antico ha lasciato tracce nelle leggende popolari. Per la Pera Cagna precedentemente citata, la leggenda vuole che siano nascoste nelle viscere del masso grosse quantità d’oro e d’argento, da qui il detto «il Calcante e Pera Cagna, valgon più di Francia e Spagna».