di Fabio Balocco
Marco Bernardi in presa su un masso della collina morenica alla fine degli anni Settanta.
Marco, ci racconti come e quando è nata l’arrampicata sui massi in valle di Susa?
«Ricordo che mi sono avvicinato ai massi nel 1974/75. Mi ero iscritto alla scuola di alpinismo di Alpignano e si andava sui massi esclusivamente per allenamento. Allora, a dire il vero, c’era solo il masso di Caselette ad essere frequentato. Si faceva la traversata del masso, che è molto grande, e si facevano più giri possibili, passando da una presa all’altra solo per allenarsi alla resistenza.
Non c’era la ricerca della difficoltà, non si salivano vie. Quello venne dopo. Il vero scopritore dei massi in questo senso fu Gian Carlo Grassi. Forse grazie ai suoi viaggi negli Stati Uniti, dove i massi venivano saliti, e l’arrampicata sui massi era un’attività a sé, con una sua dignità. Negli Stati Uniti il primo ad utilizzare i massi per l’arrampicata fu John Gill, un ginnasta che aveva portato sui massi le stesse tecniche di allenamento della ginnastica. Aveva anche inventato una bellissima classificazione delle difficoltà sui massi: B1 significava che una sola persona era riuscita a salire il masso per quella via, B2 se erano due, B3 se erano tre. Sopra il B3 non esisteva più classificazione perché voleva dire che la via era troppo facile. Il mio primo incontro con Grassi lo feci proprio sotto un masso, alla Pietra Salomone di Trana, una domenica. Gian Carlo provava una soddisfazione fine a se stessa nell’arrampicata sui massi.
Questa sua visione mi contagiò ed anch’io cominciai ad arrampicare sui massi alla ricerca delle difficoltà. Ma l’attività principale restava l’alpinismo».
Oltre a te e Gian Carlo, altri arrampicavano sui massi?
«Un altro che arrampicava parecchio sui massi era Claudio Persico, col quale andai anche ad arrampicare a Finale, quando a Finale le vie erano non più di sei o sette, e non le centinaia di oggi. Ma eravamo comunque in pochi a salire i massi. Ricordo anche Roberto Bonelli, Franco Salino, Renzo Luzi. Ma, ripeto, eravamo mosche bianche. Però andavamo molto. Ogni due o tre sere si andava, si scoprivano massi nuovi e si aprivano nuove vie. C’era anche competizione fra di noi. Ricordo che un periodo particolarmente proficuo fu la primavera del 1980. Allora tenevo anche un diario in cui mi segnavo le vie, ovviamente solo quelle nuove. Ma chi provvedeva poi a catalogarle era Grassi».
Consideravate questa attività come a se stante o come palestra in funzione dell’alpinismo?
«Dopo un primo periodo in cui i massi erano stati solo visti come allenamento, io personalmente cominciai a vederli con occhi diversi. E a divertirmi a salirli, per il piacere della salita in sé. Era un piacere fine a se stesso fare un passaggio per la prima volta. Un piacere del tutto diverso dall’alpinismo, il piacere dell’arrampicata in sé. Era una gratificazione solo di tipo sportivo. Che poi avrei riversato anche nelle gare d’arrampicata».
Eravate in contatto o comunque sapevate che attività sui massi si svolgevano anche in Val di Mello ed a Fontainebleau?
«Conoscevamo Bleau (N.d.R. Fontainebleau), ma a Bleau c’era una visione diversa dei massi. Le vie di Bleau erano paragonate alle vie alpine. A volte si leggeva sulle guide che un certo percorso era comparabile ad una certa via delle Alpi. Non c’era una ricerca della difficoltà fine a se stessa, ma si cercava di ricreare le stesse sensazioni delle grandi vie di montagna.
In Val di Mello sapevamo che c’era un movimento analogo al nostro, ma non avevamo contatti. A Bleau fummo stimolati ad andare, non in Val di Mello. Doveva essere l’82 quando andai per la prima volta a Bleau, ma andai con lo spirito dell’arrampicata fine a se stessa».
Cosa ne pensi di chi oggi pratica il bouldering?
«Benché io sia stato uno dei promotori dell’arrampicata, non credo che né le gare di arrampicata né l’arrampicata su strutture artificiali abbiano un senso. Io penso che l‘arrampicata su masso sia la vera essenza dell’attività sportiva dell’arrampicata. L’arrampicata deve svolgersi solo su una struttura naturale e l’arrampicata su masso ne è la massima espressione. Mentre in falesia l’arrampicata è interrotta dalla necessità di utilizzare le protezioni. Sarebbe meglio in falesia arrampicare con la corda dall’alto per migliorare la tecnica, e per provare il piacere dell’arrampicata in sé come si prova sui massi, anziché assicurarsi da uno spit all’altro. L’arrampicata è poi un mezzo tecnico che può evolvere nell’alpinismo, ma può anche rimanere arrampicata, attività sportiva in sé, che esalta il gesto fine a se stesso, facilitato questo anche dalla mancanza del rischio. Io per l’arrampicata sui massi vedo un futuro e le gare potrebbero svolgersi proprio sui massi, piuttosto che sulle strutture artificiali, che non hanno senso. Nell’arrampicata non si deve pensare che al gesto fine a se stesso».
Tu arrampichi ancora sui massi?
«Sì, magari non ricerco la massima difficoltà, ma mi diverte ancora, soprattutto a Fontainebleau, dove andiamo una volta all’anno. I massi qui sono più lisci di allora, il serpentino si logora. A Bleau invece si sono conservati meglio, grazie all’arenaria».
Una domanda personale: altri al tuo posto avrebbero deciso di vivere almeno in parte sulla fama che si erano creati. Tu no, hai deciso di ritirarti dalla scena. Perché?
«A me è sempre piaciuta l’avventura, ho sempre cercato di fare salite avvolte nel mistero, nella leggenda. A me piace, mi attira quello che non conosco. Quando mi sono reso conto che avevo dato il massimo, non m’interessava ripetermi. E poi anche i grandi problemi erano stati tutti risolti, almeno sulle Alpi. L’alpinismo è rischio e secondo me ha un senso correrlo solo se rappresenta qualcosa di nuovo, e questa non è un’idea solo mia. Quando avevo vent’anni mi sembrava che l’alpinismo avesse un significato anche per l’umanità, che trascendesse la mia persona. Poi, a 25/26 anni mi sono reso conto che avevo dato tutto quello che potevo dare e non aveva più senso continuare a rischiare. Così mi sono avvicinato all’arrampicata, ma l’arrampicata è davvero tutta un’altra cosa rispetto all’alpinismo.
È diversa come è diversa l’informatica, cui mi sono dedicato dopo, questa volta per lavoro. Non è stato difficile. Il vero passo è staccare dall’alpinismo, una volta fatto, puoi esercitare qualsiasi altra attività. L’alpinismo è una cosa unica, che ti assorbe totalmente. Ricercare il proprio limite nell'alpinismo porta necessariamente a incontrarsi con il significato della morte e quindi anche della vita: il resto, benché complesso ed impegnativo, è altra cosa…».